Onorevoli Colleghi! - Il dibattito, anche infuocato, tenutosi in questi anni sulle diverse ipotesi di amnistia e indulto ha opposto, da un lato, coloro che ritenevano necessario uno sfollamento delle strutture carcerarie in quanto non in grado di assicurare il diritto costituzionale dell'umanità e del rispetto della dignità della persona, dall'altro, coloro che si sono fatti carico dell'allarme sociale connesso alla messa in libertà, prima del termine stabilito, di soggetti ritenuti colpevoli in via definitiva.
      È noto che la situazione degli istituti penitenziari italiani è gravissima ed al limite del collasso. Stupisce anzi che non siano esplose proteste esagitate ed esasperate e ciò va ad onore di coloro che, per un motivo o per un altro, si trovano a scontare un periodo di detenzione.
      Secondo i dati pubblicati nel marzo 2003 dal sito INTERNET dei Radicali italiani, il più attento su tutte le questioni inerenti i problemi della giustizia, la popolazione detenuta in Italia è cresciuta dal 1991 al 2001 dell'80 per cento. A fronte di spazi e di strutture rimasti sostanzialmente invariati e quindi sempre più invivibili.
      Dei 55.275 detenuti presenti al 31 dicembre 2001, 15.442 erano tossicodipendenti (27,94 per cento); 1.421 erano i detenuti sieropositivi all'HIV (2,57 per cento del totale). Di questi 169 erano in stato di AIDS conclamato (al 31 dicembre 2000 erano 128).
      Fra tutti i detenuti nelle carceri italiane solo 13.704 hanno la possibilità di svolgere un lavoro. Si è passati da una percentuale del 43,54 per cento nel giugno 1990 al 24,79 per cento dell'agosto 2002. Un detenuto su quattro ha la possibilità di svolgere un lavoro a stipendio dimezzato perché condiviso con un altro detenuto

 

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che altrimenti non avrebbe questa opportunità.
      L'85 per cento dei detenuti lavoranti è alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e svolge lavori di pulizia o di preparazione e distribuzione del vitto. Il restante 15 per cento è costituito per la maggior parte da detenuti in semilibertà dipendenti da datori di lavoro esterni.
      A fronte di questa situazione, la richiesta di costruire nuove carceri per detenere l'aumentata popolazione carceraria è semplicistica e cede di fronte alla semplice considerazione che in ogni caso occorrerebbero anni, se non lustri, per la loro realizzazione. E la filosofia del diritto ci insegna che se le carceri e le aule di tribunale sono troppo piene, c'è qualcosa che non va nella «Giustizia» nel suo complesso.
      Dalla metà degli anni '90, ad Arborea, in provincia di Oristano, un prete, don Giovanni Usai, ex cappellano carcerario, ha avviato un'esperienza di recupero, tra l'iniziale diffidenza della società civile, di altissimo valore morale e civile. Con il positivo concorso economico e di mezzi della diocesi, della regione Sardegna e del comune, ha aperto una casa di accoglienza, intitolata alla nostra Signora di Bonacatu, destinata a detenuti in semilibertà.
      Usufruendo di un istituto carcerario don Usai ha raccolto intorno a sé un gruppo di «dimenticati dagli uomini» per avviarli ad un ritorno alla società civile. Nella casa di accoglienza si lavorano i 40 ettari di terra concessi dall'Ente regionale sardo aziende territoriali, i prodotti sono venduti e viene riconosciuta una retribuzione ai lavoranti.
      Nella scorsa legislatura la casa ha raggiunto persino una propria autosufficienza economica e un plauso dal Ministro della giustizia Castelli, che già aveva convintamente partecipato alla sua inaugurazione nel novembre 2002.
      La presente proposta di legge intende sistematizzare e diffondere questa esperienza non solo per i suoi altissimi valori rieducativi e di recupero, ma anche per i suoi effetti positivi sulla riduzione della popolazione carceraria e sui costi di mantenimento della stessa.
      Pertanto, si introduce con l'articolo 1 un nuova misura alternativa alla detenzione: l'affidamento a comunità di lavoro e recupero sociale. Il suo obiettivo è il recupero mediante il lavoro retribuito. Le condizioni minime sono una pena non superiore a quattro anni per reati connessi a particolari situazioni sociali e personali e l'assenso del condannato, che può, altresì, proporre la relativa istanza. Le procedure sono modellate su quelle dell'altro istituto, l'affidamento in prova al servizio sociale, con competenza del giudice di sorveglianza, adeguate prescrizioni per l'esercizio dell'istituto, ulteriori benefìci a fronte di una prova positiva, attività di supporto da parte della comunità nei confronti dei soggetti più sensibili.
      Al detenuto è riconosciuta una retribuzione, la cui entità è determinata ai sensi di quanto già previsto dalla legislazione carceraria, salvi il vitto e l'alloggio. Altra disposizione di grande valore morale e sociale è quella che prevede che le comunità debbano tendere all'autosufficienza economica e che possano impiegare ex detenuti. Per tali motivi è preferibile che esse assumano la veste giuridica di organizzazioni non lucrative di utilità sociale o di organizzazione di volontariato.
      Il comma 9 dell'articolo 1 prevede innovativamente che l'affidamento possa essere disposto anche prima che il soggetto sia associato al carcere dal giudice che emette la sentenza di condanna, ai sensi dell'articolo 53 della cosiddetta «legge sulla depenalizzazione», legge n. 689 del 1981, con le limitazioni ivi previste.
      L'articolo 2 detta le disposizioni attuative da adottare con decreto del Ministro della giustizia: individuazione ed accreditamento delle strutture, procedure per la concessione di contributi e la cessione di strutture da parte dello Stato e degli enti territoriali.
 

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